L’autunno caldo ricomincia da A con Alitalia, Almaviva e acciaio
Tre maxi crisi aziendali arrivano al capolinea entro novembre. E in Emilia-Romagna tiene banco la chiusura dello storico stabilimento ex Italgel di Parma
Bologna, 28 ottobre 2017
Autunno inizia con la stessa lettera di Alitalia; la stessa di Almaviva; la stessa, ancora, di acciaio. Sono questi i grandi focolai di crisi nell’ultimo quarto del 2017; una stagione che da qualche anno, un po’ sotto traccia, è tornata calda come negli anni ’70 delle grandi vertenze metalmeccaniche. Solo che, per usare le parole di Francesco Aufieri, segretario nazionale della Slc-Cgil sul Corriere della Sera “le catene di montaggio del nostro tempo” non sono nelle fabbriche, bensì dentro i call center. I call center, appunto, come quelli di Almaviva, il sesto gruppo privato nazionale per numero di addetti, 12mila in Italia e altri 33mila nel mondo.
Dopo la cessazione di un maxi-appalto con l’Eni, il colosso del customer care aveva proposto per i 500 lavoratori della sede milanese di via dei Missaglia di congelare i pagamenti degli straordinari e di utilizzare la cassa integrazione a zero ore. L’offerta ha trovato la contrarietà di Cgil e Uil, e soprattutto del 75% dei lavoratori chiamati al referendum. Di conseguenza l’11 ottobre l’azienda ha invitato 64 dipendenti a trasferirsi in un paese della Calabria, Rende, a migliaia di chilometri dalle rispettive famiglie. Nelle ultimissime ore, però, l’Eni ha concesso ad Almaviva una quota aggiuntiva di lavoro permettendo all’azienda di ritirare i 64 trasferimenti. Resta da vedere se questa sarà la soluzione definitiva.
Tra le commesse perse negli ultimi anni da Almaviva c’è poi Alitalia, che ormai a ogni campagna elettorale tiene sotto frusta diversi politici, i detentori dei punti Mille Miglia e, soprattutto, 9.645 lavoratori. L’ultimo colpo di scena è l’agognata offerta per l’intero blocco rivelata dal Financial Times e che porta la firma del fondo Cerberus. Tra le altre proposte d’acquisto vincolanti, spiccano quelle di Lufthansa (che scucirebbe mezzo miliardo di euro) ed Easyjet. I tedeschi lascerebbero però fuori, oltre all’handling, il personale di terra: dentro solo la parte aviation, e magari nemmeno tutta. In sostanza, la New Alitalia diverrebbe una low cost a cui non servirebbero più gli attuali 25 velivoli per il lungo raggio, perché dedita esclusivamente a brevi e medie distanze, come ponte verso gli hub intercontinentali. Una piccola Ryanair, insomma: proprio lei, la tigre irlandese che al terzo round si è ritirata dall’asta indetta dal commissario straordinario Luigi Gubitosi, complice la maxi-vertenza di fine estate con i piloti. La vicenda Ryanair ha spinto il governo Gentiloni a spostare la fine della gara per Alitalia dal 5 novembre al 30 aprile: grazie al decreto fiscale pre-finanziaria, a Gubitosi arriverà un altro assegno da 300 milioni, dopo i 600 della primavera, in modo da tenere botta fino al prossimo settembre.
L’orizzonte appare più ristretto, invece, ai dipendenti dell’Aferpi di Piombino, che è poi la ex Lucchini in versione algerina, al momento anello più debole di quel domino della siderurgia ripartito dopo che la società Am Investco, capeggiata da Arcelor Mittal, ha vinto la gara per l’Ilva, sconfiggendo l’alleanza Jindal-Cdp. Questo risultato, da un lato, ha fatto cadere l’ennesima tegola sull’azienda toscana, perché Marcegaglia, storico cliente, fa parte di Am Investco e quindi intende ora rifornirsi a Taranto; dall’altro lato, però, proprio un’insoddisfatta Jindal vuol creare sul Tirreno il terzo polo nazionale dell’acciaio (il secondo è il gruppo lombardo Arvedi): il piano di inizio settembre parla di 1.800 occupati e 3 milioni di tonnellate di output annuo, da raggiungere peraltro in barba agli ambientalisti, con la riaccensione dopo tre anni dell’altoforno. Secondo i rumors, gli indiani offrirebbero non più di 50 milioni al gruppo Cevital, che rilevò Piombino dall’amministrazione straordinaria; e che tuttavia, stando alle cronache, pur in deciso ritardo sugli impegni presi per il ripristino dell’attività industriale, vorrebbe almeno il doppio.
Il 31 ottobre, dunque, è attesa la prossima mossa del domino. Mossa doppia, anzi: lo stesso giorno il governo potrebbe revocare l’assegnazione ad Aferpi; e, a Taranto, partiranno le trattative tra sindacati e Am Investco, che dei 14.200 dipendenti dell’Ilva conta di tenerne 10mila, peraltro con l’azzeramento delle posizioni contrattuali, ossia con un taglio medio delle retribuzioni di circa il 20%. Non è impossibile, del resto, risolvere una crisi produttiva e occupazionale nel mondo della siderurgia, come dimostra, più in piccolo, il caso della bresciana Stéfana. I 700 lavoratori sono stati salvati da uno spezzatino i cui ingredienti sono stati Feralpi, Alfa Acciai, Duferco; e, da ultimo, Esselunga, la quale, convertendo il vecchio stabilimento di Ospedaletto in un proprio polo logistico, ha assorbito ben 180 addetti.
A proposito di grande distribuzione alimentare, l’estate ha lasciato in sospeso, in particolare, il tavolo al Ministero dello Sviluppo economico riguardante Tuodì. Secondo le ricostruzioni fornite dai sindacati al Sole 24 Ore e poi riprese da altri organi di informazione, a luglio la Tuodì ha chiesto il concordato preventivo in continuità a fronte di 450 milioni di euro di debiti, di cui 225 verso i fornitori, rispetto a un fatturato annuo di circa 750. E così, se su 400 punti vendita a livello nazionale oltre 100 erano stati chiusi, in quelli restanti gli scaffali sarebbero più di una volta rimasti vuoti. Intanto, l’azienda proseguiva le trattative per iniettare una massiccia dose di cassa integrazione straordinaria in una realtà da circa 4mila dipendenti, 6mila con la consorella Dico (acquistata quattro anni fa dalla Coop, un affare per cui ora pende una causa da 300 milioni davanti al Tribunale di Milano). Stando al sito Italiafruit.it, a metà settembre i vertici avrebbero promesso la riapertura, nel giro di due mesi, di 95 negozi, mentre per un’altra trentina era previsto l’appalto a un soggetto terzo: tale eventualità alimenta le voci su un passaggio di consegne tra Tuodì e Aldi, il colosso tedesco dei discount che da tempo prepara la sfida italiana a Eurospin e ai connazionali di Lidl.
Multinazionali che vengono, dunque, e multinazionali che vanno, secondo un’imperitura legge che già si è ricordata su queste schermate. Del resto, quelle che investono in Italia certo non trovano le porte aperte, come insegna il caso di Kering: il gruppo transalpino, più volte al centro delle polemiche sulla conquista della moda tricolore da parte francese, nel 2013 si è pure preso dalla procedura concorsuale il marchio della Richard Ginori di Sesto Fiorentino, salvando quindi 280 dipendenti, più o meno pari agli anni di storia dell’azienda. Il futuro, tuttavia, è tornato incerto a causa del mancato accordo tra Kering e i proprietari dell’area dove sorge lo stabilimento delle prestigiose porcellane, che sono poi le banche creditrici della precedente gestione o chi quei crediti ha rilevato (eh sì, i benedetti Npl). Al quadro, si aggiunge l’attesa di altre 87 persone che non erano state riassorbite alla ripresa dell’attività.
Uno dei fronti più difficili rimane, in ogni caso, quello della Ericsson, che tra luglio e settembre ha ufficializzato 250 dei 315 licenziamenti (su 3mila occupati italiani) previsti dall’ultima procedura sindacale avviata in primavera, colpendo soprattutto Genova e Napoli. La stampa svedese, giusto dopo Ferragosto, ha parlato di un nuovo piano di 25mila esuberi a livello mondiale, generati dalle incertezze che il colosso dell’elettronica incontra a causa della pressione concorrenziale di Nokia e ancor più di Huawei.
L’alternanza tra crisi piccole (trattate dagli assessorati regionali o senza la mediazione delle istituzioni) e crisi grandi si ripete, in sedicesimo, in Emilia-Romagna. Ultimo caso eclatante è l’ex Italgel di Parma: quella del Mottarello e del Maxicono, per intenderci, a lungo sotto le insegne della Nestlé e dal 2016 appartenente alla Froneri, joint venture tra la stessa multinazionale svizzera e una società terza. A fine settembre, la Froneri ha annunciato la concentrazione dell’attività produttiva tra Umbria e Lazio; nell’ex ducato, su 120 dipendenti attuali (stagionali esclusi), rimarranno solo amministrativi e addetti commerciali. Numeri minori, invece, per la Vapor Europe di Sassuolo, dove a rischiare lo stipendio sono 30 dipendenti su circa 50 totali; anche lì, nondimeno, la proprietà è di una multinazionale, la Wabtec, che pure intende trasferire la produzione delle porte automatiche create per autobus, treni e metropolitane: la destinazione è la Repubblica Ceca, mentre nel distretto della ceramica resterebbe solo il post-vendita.
Nicola Tedeschini