Ora salta anche Unieco. Ecco il bilancio della crisi
In liquidazione coatta il colosso cooperativo reggiano, ultima vittima dell’ecatombe cooperativa. Ma la lunga recessione lascia sul campo cadaveri e feriti anche tra i gruppi privati come Artoni, l’ex Bredamenarinibus, Selcom, Paritel, Stampi. E non risparmia le controllate di multinazionali come Saeco e Berco.
Qualcuno, davanti ai microfoni di TeleReggio, è scoppiato in lacrime: e non poteva essere altrimenti, in quello che è già mediaticamente dipinto come il funerale di un’azienda con 133 anni di storia. E’successo il 29 marzo quando Unieco, erede di una delle più antiche storie cooperative italiane, al circolo Pigal di Reggio Emilia ha ufficializzato ai soci la liquidazione coatta amministrativa. Non si ferma subito, l’azienda, «ma vanno avanti solo i cantieri privati, per quelli pubblici non abbiamo i requisiti: da lunedì 3 aprile siamo tutti a casa, io compreso» ha spiegato Ivan Gianesini, membro di un cda che non ha potuto, a dire della presidentessa Cinzia Viani, liberare Unieco dalla «zavorra del passato».
Ora per i 340 lavoratori, e le 200 società controllate, «c’è da aspettare che Coopsette faccia scuola», come ha spiegato, ancora a TeleReggio, uno di quei pensionati che pure, nel prestito sociale, hanno messo anche decine di migliaia di euro. Eh già, proprio lei, Coopsette: l’eterna cugina della Bassa, ed eterna promessa sposa. Tutto, tra le due aziende, pareva parallelo: il primo concordato in bianco, chiesto da entrambe nel 2013, con la nuova normativa del decreto Salva-Italia ancora fresca; i consulenti legali; la procedura di ristrutturazione «182-bis». Tutto propendeva per il matrimonio morganatico, per creare un’ Unisette da 2.300 soci e 3 miliardi di portafoglio ordini. E invece si arrivò al 2015, e lì l’assemblea di Unieco, reduce dalle mancate nozze con la Cmb Carpi, si spaccò in modo alquanto inedito per il movimento. Tutto bloccato, persino le ipotesi di joint venture parziali. Lo storico presidente Mauro Casoli cedette il passo alla Viani, e come direttore generale, caso emblematico, si avvicendarono presto due uomini estranei alla cooperazione, ovvero Antonio Barile, ex Benetton, e Alberto Franzone, proveniente da un colosso mondiale del restructuring come Alvarez&Marsal.
Non è bastato: l’infelice parallelismo è giunto fino al punto più drammatico. Coopsette, vittima anche di qualche delicata partita giudiziaria, finì in liquidazione già a ottobre 2015, a pochi giorni da un’udienza che poteva portare al fallimento, e con 1300 creditori che secondo i media attendevano 800 milioni di euro. Ancora nelle stime di Gianesini, il fardello attuale del gruppo Unieco è invece inferiore, circa 660 milioni, la gran parte dovuti a un pool di banche, e circa 230 solo al nazionalizzando MontePaschi di Siena. E sarebbe stata proprio la vacatio registratasi lo scorso autunno in testa a Mps a far sì che nessuno si prendesse la responsabilità di rifinanziare Unieco, di conseguenza stretta nella morsa letale della clessidra e di un patrimonio netto ormai negativo per oltre 80 milioni. Era tardi, quando il management ha tentato lo sdoppiamento: di qua la vecchia azienda, da ripulire con un nuovo concordato chiesto in bianco il 10 gennaio, e confidando in una cessione “amichevole” di qualche asset, ad esempio la divisione Ambiente alla multiutility Iren; di là una newco con tutti gli immobili ancora da vendere, e con il debito bancario, da girare a un’inedita cordata anglo-italiana formata dai fondi Oxy e Attestor e da una finanziaria di Legacoop. E’ stata quest’ultima, proprio come per Coopsette, a invocare la serrata: e così il matrimonio infine si farebbe tra poveri, un matrimonio allargato per creare un unico polo delle costruzioni con i pezzetti in bonis dei vecchi player.
C’è, insomma, chi medita l’ampliamento, o la ripetizione, del progetto Sicrea, che dal 2012 al 2015 radunò sotto una nuova spa pura il meglio di quattro coop reggiane e modenesi ormai in disarmo. Fu chiaramente un progetto pilota sostenuto sia dalla Lega sia dalle amministrazioni locali, con un pesante ma efficace utilizzo degli ammortizzatori sociali. Recentemente, lo si è tentato di replicare, su scala regionale, nel settore porte e serramenti, ma senza successo. È stato però un primo derivato di Sicrea, il Consorzio Integra, a consentire la messa in sicurezza del bolognese Ccc. Perché le coop hanno avuto i loro problemi lungo tutta la via Emilia: a Parma la Di Vittorio e, in agricoltura, la Copador; nella Bassa Romagna la Cesi e la Iter; da ultimo, la ravennate Acmar, con le 104 lettere di mobilità che, partite già da un mese, saranno oggetto di una protesta sindacale il 5 aprile.
L’ultimo caso riporta nella città del Tricolore, dove, nelle stesse ore in cui Unieco rinunciava al concordato in bianco, il Ccpl, maxi-consorzio di produzione industriale, riusciva invece a strapparlo, convincendo il tribunale con un piano quinquennale di razionalizzazione societaria e di dismissioni che dovrebbe sanare buona parte dei 150 milioni di esposizione. La disfatta del modello mutualistico ha rappresentato è solo uno dei fili conduttori delle crisi aziendali in Emilia-Romagna.
Ancora la provincia reggiana, sponda Guastalla, trattiene il fiato per la Artoni Trasporti, un operatore da oltre 7 milioni di spedizioni all’anno per conto di 13mila aziende clienti, e che solo nella capogruppo valeva oltre 200 milioni di fatturato. Evidentemente, però, non si è mai completato quel percorso di ristrutturazione debitoria avviato con le banche nel 2012, e con l’inizio di quest’anno è saltato, pure qui, il matrimonio con il cavaliere bianco, l’alto-atesina Fercam. O meglio: Fercam ha sì firmato davanti al Mise, ma solo per l’ affitto di un ramo d’azienda; 14 filiali sulle 40 di Artoni, e 140 dipendenti su quasi 500. Tutti gli altri restano nel limbo, al pari dei circa 3mila fornitori e subfornitori. Il 5 aprile, davanti a un altro Ministero, quello del Lavoro, Artoni cercherà il rinnovo degli ammortizzatori sociali; con l’onere, tuttavia, di provare la continuità aziendale, che si baserebbe sul contoterzismo svolto in favore di Fercam. Altrimenti, come racconta in questi giorni Il Sole 24 Ore, c’è il rischio, ad andare bene, dell’amministrazione straordinaria.
Un altro filo conduttore delle crisi aziendali in regione riguarda i mutevoli umori delle multinazionali. A volte, magari, aiutano a salvare il patrimonio industriale italiano, come gli apparati meccanici ed elettronici targati Selcom. Anche a Castelmaggiore il copione dell’autunno caldo ha incluso procedura concorsuale, picchetti e cassa integrazione; poi, sotto Natale, a far tirare il fiato ai 360 dipendenti, che diventano 770 con le altre sedi italiane, è arrivata la proposta d’acquisto dell’olandese Roj. Alla Berco, i duri colpi della concorrenza asiatica inquietano il padrone tedesco, il colosso Thyssenkrupp. Lì, nella bassa ferrarese, si fabbricano componenti per le macchine movimento terra, destinate soprattutto a cantieristica e industria mineraria. Ancora nel 2013, i lavoratori erano oltre 2mila: ma la prima tornata di 468 esuberi consumatasi allora non è bastata a risollevare un conto economico che, nei quattro esercizi seguenti, ha registrato una marginalità lorda risicata e 180 milioni di perdite complessive, a fronte di un fatturato annuo di 300 milioni. E così, lo scorso ottobre, è partito il nuovo piano da 365 tagli su 1651 addetti, senza contare il polo veneto. Fortunatamente, l’accordo sindacale di gennaio ha consentito di ridurre, di poco, gli esuberi e di anticipare gli stessi con un piano di mobilità incentivata volontaria. L’azienda inoltre, a fronte di una maggiore flessibilità nei turni, ha rinunciato al previsto outsourcing di parte delle attività industriali; e infine, smentite le voci di una vendita agli indiani di Tata, ha proceduto alla fusione con la Forging Group che dovrebbe, per ora, porre fine alla crisi.
Del resto, come il segretario ferrarese della Uil Paolo Da Lan disse al Sole lo scorso 14 gennaio, quella non era solo la crisi di un’impresa, «ma di tutto un sistema locale che vive attorno all’azienda». Proprio come la Saeco per Gaggio Montano: il tramonto delle fabbriche-paese è uno dei fattori che contribuiscono a cambiare la geografia industriale dei nostri Appennini, in particolare quello bolognese. La controllante Philips preferiva la Romania, costringendo 243 operai, oltre metà della forza lavoro complessiva, all’epica protesta del 2016. In questo caso, l’autunno ha portato l’accordo sindacale e la consueta cassa integrazione. E con il nuovo anno sono arrivate sia l’offerta della bergamasca N&W Global Vending, con dietro il fondo statunitense Lone Star, sia il passaggio, per una ventina di lavoratori, a una newco voluta da Alberto Vacchi, ovvero mister Ima.
Vacchi ci ha poi riprovato, dicendosi pronto, insieme all’amico-concorrente Maurizio Marchesini, a riassumere almeno 15 dipendenti della Stampi di Monghidoro per trasformare l’azienda in un fornitore dei loro colossi del packaging. Alcune tecnicalità hanno messo in stand-by la proposta, e al momento l’affetto di Gianni Morandi non basta ai 62 lavoratori della Stampi, che produce bobine elettriche e ha appena compiuto un anno di forzata inattività: la cassa è in scadenza, e a una parte degli addetti potrebbe perfino essere negata la Naspi, ossia il vecchio assegno di mobilità. Fiato ancora sospeso, dunque, e su questa falsariga si potrebbe pure andare avanti, parlando della crisi del gruppo Paritel sempre nel bolognese, che coinvolge Cevolani e Imt e rischia di trascinare anche la Demm di Porretta Terme. E ancora sotto le Due Torri i sindacati lanciano l’allarme sull’ex Bredamenarinibus che potrebbe chiudere a fine anno lasciando a casa 174 lavoratori, oggi in gran parte in cassa integrazione. «Il rischio è quello di perdere 500 posti di lavoro e non sarebbero recuperabili», spiega il segretario regionale Fiom Emilia-Romagna Bruno Papignani.
Non che in pianura Mediopadana, come visto, se la passino meglio. Altra situazione delicata è per esempio quella della Terex, le ex Officine Reggiane dove l’attuale proprietà americana ha cinque stabilimenti saturi in Europa e potrebbe smantellare di Brescello. La Bassa modenese ha pagato sia il post-terremoto sia il fatto che qualche importante player industriale è incappato in guai giudiziari, altro fattore scatenante delle crisi aziendali pure qui, nella onesta Emilia-Romagna. Una maledizione ciclicamente destinata a colpire la prosperità del tessuto industriale parmense, da Parmalat alla Parmacotto passando per la Guru. Ma questo, forse, è ancora un altro capitolo.
Nicola Tedeschini